LE STELLE DEL NONNO
Qualcuno, mi ha spiegato che le lucciole, in altura, sopravvivono fino a tarda estate. Nella mia terra, invece, a inizio maggio queste scompaiano dai pergolati. Ho un dolcissimo ricordo delle lucciole; al solo sentirle nominare, mi vengono in mente miriadi di sensazioni magiche.
Quando ero bambina, mio nonno mi portava, sul finire del mese di aprile, all'imbrunire, in campagna.
Attrezzata di un cestino più enorme di me e di un retino, a maglie strette (credo, che mio nonno mettesse le calze dismesse della nonna, a fare da rete), insieme ci si appostava, in silenzio, ad aspettare che le stelle scendessero sul pergolato.
In quel silenzio, crepuscolare, potevamo apprezzare tutti i suoni magici che la campagna produce; se facevi bene attenzione, e se da lontano non arrivavano i rumori del paese, portati dal vento, potevi ascoltare "il suono dell'erba pratolina che cresce".
Sì, era così che diceva mio nonno, io non ho mai sentito questo suono ma, ancora oggi, quando mi capita di stare in campagna di sera, mi allontano per provare a sentirlo, chissà se esiste davvero quel suono e se sarò mai silenziosa abbastanza da poterlo ascoltare.
Comunque in quegli appostamenti, dove l'unico rumore estraneo alla natura, era, di tanto in tanto, lo sfregare del cerino sulla scatola, quando il nonno accendeva la sigaretta.
A mano a mano che l'oscurità diventava padrona del campo, i suoni della campagna si amplificavano. Poi magicamente il silenzio totale.
"Ecco", sussurrava il nonno per rassicurarmi, mentre spegneva la luce della sigaretta su un sasso, "ci siamo; ora arriveranno le stelle!" Come sapesse sempre quale fosse il momento esatto, che le stelle arrivavano, non me lo sono mai spiegata, ma, di fatto, nemmeno terminava di dire quella frase e le stelline piccole, minuscole, cominciavano a cadere sul pergolato, sulla siepe, sulla mulattiera.
Era una magia davvero unica.
Il firmamento intero veniva giù a illuminare la campagna.
Era perfino più bello delle luminarie che il paese commissionava per la festa del Santo Partono e dei fuochi d'artificio che a fine festa illuminavano il cielo, si indubbiamente era una magia superiore a tutte.
Quando, si cominciava ad ascoltare di nuovo, il canto del gufo, il nonno si alzava, mi afferrava per mano e diceva: "Hanno terminato la loro missione, ora possiamo catturarne qualcuna per le nostre magie".
Così con quel cestone, legato a una fune, seguivo il nonno che riempiva il retino di stelline; "Canta" mi diceva, "Altrimenti non vengono giù, adesso serve la voce di una bambina, cosa credi, che ti ho portato a far nulla sfaticata?" e sorrideva.
Allora, sentendomi indispensabile e orgogliosa, che egli avesse scelto me tra tutti i bambini del mondo, cominciavo a intonare la canzone che mi aveva insegnato la nonna.
Lucciola lucciola,
vieni da me
che ti do il pane del re
pane di re e di regina
lucciola, lucciola, vieni vicina.
A forza di cantarla, mi veniva a noia, e il nonno mi rincuorava, "Dai ancora una volta e abbiamo terminato".
Dovevamo catturarne almeno venti, per poterle mettere, poi a casa, sotto il bicchiere di cristallo, quello del servizio delle grandi occasioni, per poi andare subito al letto e dare il tempo che si compisse il miracolo della trasformazione delle stelle (lucciole), in regali succulenti.
Qualcuno, mi ha spiegato che le lucciole, in altura, sopravvivono fino a tarda estate. Nella mia terra, invece, a inizio maggio queste scompaiano dai pergolati. Ho un dolcissimo ricordo delle lucciole; al solo sentirle nominare, mi vengono in mente miriadi di sensazioni magiche.
Quando ero bambina, mio nonno mi portava, sul finire del mese di aprile, all'imbrunire, in campagna.
Attrezzata di un cestino più enorme di me e di un retino, a maglie strette (credo, che mio nonno mettesse le calze dismesse della nonna, a fare da rete), insieme ci si appostava, in silenzio, ad aspettare che le stelle scendessero sul pergolato.
In quel silenzio, crepuscolare, potevamo apprezzare tutti i suoni magici che la campagna produce; se facevi bene attenzione, e se da lontano non arrivavano i rumori del paese, portati dal vento, potevi ascoltare "il suono dell'erba pratolina che cresce".
Sì, era così che diceva mio nonno, io non ho mai sentito questo suono ma, ancora oggi, quando mi capita di stare in campagna di sera, mi allontano per provare a sentirlo, chissà se esiste davvero quel suono e se sarò mai silenziosa abbastanza da poterlo ascoltare.
Comunque in quegli appostamenti, dove l'unico rumore estraneo alla natura, era, di tanto in tanto, lo sfregare del cerino sulla scatola, quando il nonno accendeva la sigaretta.
A mano a mano che l'oscurità diventava padrona del campo, i suoni della campagna si amplificavano. Poi magicamente il silenzio totale.
"Ecco", sussurrava il nonno per rassicurarmi, mentre spegneva la luce della sigaretta su un sasso, "ci siamo; ora arriveranno le stelle!" Come sapesse sempre quale fosse il momento esatto, che le stelle arrivavano, non me lo sono mai spiegata, ma, di fatto, nemmeno terminava di dire quella frase e le stelline piccole, minuscole, cominciavano a cadere sul pergolato, sulla siepe, sulla mulattiera.
Era una magia davvero unica.
Il firmamento intero veniva giù a illuminare la campagna.
Era perfino più bello delle luminarie che il paese commissionava per la festa del Santo Partono e dei fuochi d'artificio che a fine festa illuminavano il cielo, si indubbiamente era una magia superiore a tutte.
Quando, si cominciava ad ascoltare di nuovo, il canto del gufo, il nonno si alzava, mi afferrava per mano e diceva: "Hanno terminato la loro missione, ora possiamo catturarne qualcuna per le nostre magie".
Così con quel cestone, legato a una fune, seguivo il nonno che riempiva il retino di stelline; "Canta" mi diceva, "Altrimenti non vengono giù, adesso serve la voce di una bambina, cosa credi, che ti ho portato a far nulla sfaticata?" e sorrideva.
Allora, sentendomi indispensabile e orgogliosa, che egli avesse scelto me tra tutti i bambini del mondo, cominciavo a intonare la canzone che mi aveva insegnato la nonna.
Lucciola lucciola,
vieni da me
che ti do il pane del re
pane di re e di regina
lucciola, lucciola, vieni vicina.
A forza di cantarla, mi veniva a noia, e il nonno mi rincuorava, "Dai ancora una volta e abbiamo terminato".
Dovevamo catturarne almeno venti, per poterle mettere, poi a casa, sotto il bicchiere di cristallo, quello del servizio delle grandi occasioni, per poi andare subito al letto e dare il tempo che si compisse il miracolo della trasformazione delle stelle (lucciole), in regali succulenti.
scritto per i piccoli amici da
angeladeblasio (ariadipoesia)
Nessun commento:
Posta un commento